La valutazione dei fondi: non è solo un problema di misclassification ma anche di persistenza e di team di gestione

Pubblicato il 20/07/2017 - Emanuele Carluccio
Quando si vogliono fare le classifiche, lo si sa … bisogna essere sicuri, in primo luogo, di aver messo a confronto fra loro oggetti/prodotti omogenei e, in quanto tali, davvero confrontabili…

Nel nostro mercato dei fondi comuni, la classificazione maggiormente diffusa tra gli operatori è quella effettuata da Assogestioni che suddivide i diversi fondi in macrocategorie che, a loro volta, sono definite sulla base delle percentuali minime e massime di investimento che il gestore può effettuare su determinate tipologie di strumenti. Ognuna delle macro classi viene, poi, a sua volta, suddivisa in base a determinati parametri che le caratterizzano in funzione di una serie di fattori (l’area geografica, il settore economico,  il rischio di mercato, il rischio di credito o la valuta) sui  quali il gestore decide di focalizzarsi.

Nonostante la classificazione ora citata risulti essere la più diffusa a livello operativo, è importante sottolineare come essa soffra di almeno due limiti: in primo luogo si ferma ad un grado di dettaglio accettabile per l’investitore medio ma del tutto inaccettabile per l’investitore professionale; in secondo luogo essa si basa sulle informazioni fornite dalle società di gestione con le inevitabili fragilità intrinseche legate, soprattutto, ai potenziali comportamenti opportunistici dei gestori.

È importante, quindi, al fine di effettuare una selezione dei migliori prodotti/gestori, chiedersi se la classificazione proposta sia effettivamente in grado di definire peer gruop costituiti da fondi sufficientemente omogenei, in termini di stile di gestione e di trade off rendimento-rischio, tali da rendere un confronto al loro interno ragionevole e significativo. 

Per dare una risposta ad un simile interrogativo risulta opportuno prendere in esame due diverse metodologie che hanno la finalità di pervenire ad una classificazione/analisi dei fondi più puntuale ed approfondita: la prima, si basa sulla disponibilità di informazioni (molto dettagliate e frequenti) fornite dalle diverse società di gestione ed è rappresentata dall’approccio holding based; la seconda, invece, si basa su un approccio di classificazione alternativo, totalmente indipendente dalla disponibilità/volontà (o meno) del gestore di garantire una continua trasparenza sulla propria politica d’investimento, e consiste nella c.d. style analysis.

L’approccio holding based giunge alla definizione della strategia d’investimento del singolo fondo mediante l’utilizzo di due diversi set di dati, riferibili al medesimo istante temporale: il primo è un database che contiene le caratteristiche finanziarie dei singoli titoli sottostanti al fondo oggetto di analisi; il secondo è costituito dalla serie storica dei titoli (e del relativo peso) detenuti dal fondo stesso.

È indubbio che informazioni di questo tipo non sono disponibili al generale pubblico degli investitori ed implementare un processo di continuo aggiornamento dei dati può risultare decisamente costoso. 

Tuttavia, l’importanza e la forte influenza che l’approccio holding based ha assunto negli anni tra il pubblico degli investitori privati e istituzionali, nonché tra i consulenti finanziari, ne ha reso possibile l’applicazione  nel processo di classificazione dei fondi in quanto le SGR hanno tutti gli incentivi a fornire quante più informazioni possibili in modo da mantenere costante la propria visibilità ai potenziali sottoscrittori. In questo modo si individua una serie molto numerosa di categorie e sottocategorie che garantiscono una assoluta omogeneità dei diversi prodotti appartenenti allo stesso peer group che, finalmente, sulla base di una molteplicità di indicatori (di rendimento, di rischio, di costo, di performance corretta per il rischio, etc.) possono essere valutati e “rankizzati”.

Nel secondo caso, invece, viene utilizzato un approccio deduttivo tramite il quale la classificazione del fondo viene ottenuta con l’ausilio di una metodologia statistica che, appunto, deduce, da dati pubblicamente disponibili, lo stile d’investimento del gestore utilizzando, come input,  la serie storica dei rendimenti realizzati dal fondo che si intende analizzare, e la serie storica dei rendimenti fatti registrare, sullo stesso arco temporale, dai benchmark rappresentativi delle asset class nelle quali il fondo potrebbe ragionevolmente aver investito. In questo modo è possibile effettuare una classificazione dei fondi comuni d’investimento partendo da dati non riservati; tramite la return based style analysis è possibile, poi, determinare lo stile di un fondo in maniera consistente su un orizzonte temporale sufficientemente elevato, in quanto lo stesso non viene determinato sulla base di una fotografia del portafoglio sottostante in un determinato momento ma, al contrario, mediante un’analisi dinamica effettuata  su un periodo di tempo significativamente esteso.

Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che o mediante la disponibilità di informazioni riservate raccolte direttamente dalle società di gestione o mediante la ricostruzione desunta delle scelte fatte dal gestore mettendo “a nudo” il fondo con la Style Analysis si riesce a garantire l’omogeneità dei prodotti messi a confronto e, quindi, la consistenza della valutazione comparativa e, in ultima istanza, dell’eventuale classifica di merito. Ma è sufficiente tutto questo?

Tutto questo sarebbe sufficiente se il posizionamento dei fondi nell’ambito dei diversi quartili si dimostrasse persistente, ovvero si ripetesse su base continuativa su un orizzonte temporale tale da risultare statisticamente significativo.

Il fatto che le performance passate spesso non si ripetano con continuità e sistematicità porta a dire che le analisi e le classifiche effettuate su periodi passati non costituiscono necessariamente una buona base di partenza per il futuro.

Citywire ritiene che una delle ragioni principali all’origine di questa mancanza di persistenza consista nel “rumore” generato nelle statistiche dei fondi dal turnover dei gestori che caratterizza il mondo dei prodotti di risparmio gestito.

Partendo da questa constatazione, quindi, diventa molto più importante tenere sotto controllo il track record delle performance personali  del singolo gestore (o del singolo team di gestori) piuttosto che il track record del singolo prodotto.

Il Management Ratio di Citywire è del tutto corrispondente all’Information Ratio utilizzato per la classificazione dei fondi ma anziché mettere in evidenza la capacità (o meno) del singolo fondo di performare meglio rispetto al benchmark della propria categoria assumendosi un rischio (più o meno) accettabile, mette in evidenza l’entità del valore aggiunto, in termini di overperformance, che il singolo manager (o team di gestori) ha fatto registrare per ogni unità di rischio assunta (dove questa unità di rischio va intesa come scostamento dal benchmark di riferimento).

È evidente che, per essere valutato, il manager (o il team di gestori) deve aver operato su quel prodotto (o su quella famiglia di prodotti, ognuno dei quali valutato nella propria categoria di appartenenza) per un periodo prolungato (almeno 30 mesi sugli ultimi 36).  È necessario che il gestore (o il team dei gestori) faccia registrare un Management ratio almeno pari a 0.25% (il che significa che remuneri con almeno un extra rendimento di 25 basis points ogni unità di rischio assunta) per aver diritto ad un rating di tipo A. Man mano che il Management ratio aumenta, il rating sale a AA o addirittura a AAA (quest’ultimo lo si registra mediamente nell’1% dei casi). Relativamente all’Italia, Citywire analizza le performance fatte registrare da 2.200 gestori che hanno la responsabilità di 2.700 prodotti autorizzati alla distribuzione sul nostro mercato. Di questi 2.700 gestori, 441 hanno ricevuto il rating: tra essi 45 hanno avuto la tripla A, 88 la doppia A e 116 la singola A.

E’ indubbio, a questo punto, che se si riesce non solo a garantire l’omogeneità delle politiche di gestione messe a confronto ma anche la stabilità del soggetto che è responsabile di quelle politiche, il giudizio che può essere formulato relativamente a quei prodotti/gestori diventa decisamente più consistente. 

Da Emanuele Carluccio Professore ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari all'Università di Verona - Docente senior della Sda Bocconi School of Management di Milano.